Perchè le insostituibili tonalità minori in musica sono considerate “artificiali”?

Tutti avranno sentito almeno una volta nella vita la parola “tonalità”, oppure, molto più spesso, prima dell’ascolto di un brano, la dichiarazione della tonalità stessa (e.g, Toccata e Fuga in Re Minore). Non tutti però ne conoscono le differenze “strutturali”, pur sapendo per esperienza, ad esempio, che un brano in tonalità minore è generalmente più malinconico e riflessivo di un altro in tonalità maggiore.

Da un punto di vista melodico, le tonalità si fondano sulle relative scale maggiori e minori, che analizzeremo brevemente. Inoltre, in questo breve articolo, spiegherò perchè mentre le tonalità maggiori sono assolutamente “naturali”, le minori sono frutto di una scelta deliberata che effettivamente non trova un riscontro nei fenomeni fisici connessi alla produzione del suono.

Una rappresentazione astratta delle tonalità maggiori e minori in musica.

Un breve accenno alle scale

Per poter comprendere il concetto chiave sulle tonalità maggiori e minori è utile aprire una breve parentesi sulle scale. Per ragioni di semplicità, da questo momento in poi, mi riferirò sempre al Do come “nota base”. I ragionamenti non hanno presentano alcuna variazione, se non la necessità di adottare i diesis e bemolli. Inoltre, non entrerò nei dettagli del cosidetto “temperamento equabile”, al quale dedicherò un articolo successivo. Tuttavia, non ometterò alcun dettaglio utile per la comprensione dei concetti discussi in questa sede.

Supponiamo che un Do abbia una frequenza di f = 261.6 Hz (i.e., il Do centrale del pianoforte), il successivo Do avrà una frequenza pari a 2f = 523.2 Hz. Questo intervallo (f, 2f) viene chiamato “ottava” ed è fondamentale per la nostra discussione. La ragione per cui le frequenze f, 2f, 4f, …, 2nf vengono chiamate allo stesso modo risale agli studi della scuola di Pitagora, il quale notò una fortissima consonanza tra le note.

Da punto di vista cognitivo, gli esseri umani percepiscono due Do a distanza di un’ottava come suoni diversi per quanto riguarda la loro frequenza (il primo è chiaramente più grave del secondo), ma facendo esperimenti con note diverse, tutti i partecipanti concordano nel dire che i soltanto due “Do” hanno le stesse caratteristiche sonore, sono cioè la stessa nota, mentre l’effetto neurofisiologico dell’ascolto, ad esempio, di Do – Si o Do – Do#, induce i soggetti a dichiarare senza alcun dubbio che i due suoni sono diversi, oltre che per la frequenza, anche per “qualcos’altro” (la cui natura è oggetto di studio delle neuroscienze).

La scala diatonica

La scuola pitagorica era molto interessata a svariate questioni filosofiche e matematiche e cercava corrispondenza numeriche in fenomeni naturali. Un numero particolarmente importante per questi pensatori era proprio il 7, che rappresentava il compimento dell’unione di uomo (3) e natura (4). L’uomo era considerato tripartito in corpo, anima e spirito, mentre la natura era rappresentata dai quattro elementi. Inoltre, lo studio della musica da parte di Pitagora era diretto verso la comprensione della cosidetta “armonia delle sfere”, ovvero i moti periodi dei pianeti conosciuti, che erano appunto sette.

Per questa ragione, il filosofo decise che l’intervallo tra due suoni aventi frequenza f e 2f dovesse contenere esattamente 7 note (ed. l’ottava era appunto la ripetizione della prima a frequenza raddoppiata). In questa sede, ometterò il procedimento che utilizzò, ma basti sapere che arrivò alla conclusione che l’ottava doveva essere divisa in intervalli (o, per meglio dire, rapporti) “a” e “b” (con a > b), con la seguente successione:

a, a, b, a, a, a, b

Se il primo suono è Do con frequenza f, il secondo avrà una frequenza pari ad “af”, il terzo pari “a²f”, “a²bf” etc. Ovviamente, deve essere valida la condizione matematica a × a × b × a × a × a × b = 2 perchè la sovrapposizione di tutti gli intervalli deve coprire esattamente un’ottava. Solo per questione puramente informativa, Pitagora arrivò (adesso non verrà fornita alcuna dimostrazione) a: a = 9/8 = 1.125 e b = 256/243 = 1.0535. Potete provare voi stessi che l’equazione è soddisfatta.

Gli intervalli “a” vennero chiamati “toni”, mentre, i più piccoli “b”, vennero denominati “semitoni”. E’ bene, tuttavia, precisare, che, nel sistema pitagorico, il semitono non coincide con la radice quadrata di tono (i.e., dato che la sovrapposizione di due semitoni deve costituire un tono, ne segue che b²=a, ma noi abbiamo b²=1.10986 ≠ a) e ciò causò una serie enorme di problemi di accordatura che portarono, appunto, all’adozione quasi universale del temperamento equabile (dove il semitono è pari a metà di un tono, per cui, essendo 5a = 10b + 2b = 12b, l’ottava venne divisa esattamente in dodici semitoni di eguale ampiezza).

Partendo sempre dal Do, la scala diatonica è conosciuta da tutti:

Do, Re, Mi, Fa, Sol, La, Si, (Do)

E’ bene precisare due concetti fondamentali. Il primo è che il nome delle note è basato su una libera scelta e la seconda è che ciò che conta è solo l’intervallo tra due note consecutive. Per cui, Mi e Fa non distano un semitono per motivazioni oscure, ma semplicemente perchè sono i nomi di due note che, nella scala diatonica pitagorica (e anche nel temperamente equabile) hanno un rapporto più piccolo di, ad esempio, Sol e La.

La scuola di Pitagora ha il merito di aver studiato per prima i rapporti tra suoni e ha quindi gettato le basi per la moderna tonalità.
La scuola di Pitagora ha il merito di aver studiato per prima i rapporti tra suoni e ha quindi gettato le basi per la moderna tonalità.

Da dove vengono i diesis e i bemolli?

Se volessimo, ad esempio, costruire la scala maggiore di Re, dovremmo rispettare gli stessi rapporti intervallari prima definiti. Per cui avremmo:

Re – x (dove x è pari a “aRe”) → Re – Mi

A questo punto, però si presenta un problema. L’intervallo tra Mi e Fa è un semitono (b), mentre a noi serve un tono (a). La soluzione al problema è quella di introdurre i diesis o bemolli. I primi alzano di un semitono un intervallo, i secondi l’abbassano. Per cui, il rapporto b# = a e, allo stesso modo, a♭ = b. Quindi la terza nota della scala diatonica di Re, sarà chiamata Fa# (o Sol♭) e così via.

Dove sono le scale diatoniche “minori”?

La risposta a questa domanda è molto semplice: non esistono! Le scale diatoniche pitagoriche non sono, infatti, nè maggiori, nè minori, però prevedono sempre l’intervallo tra la prima e la terza nota (fondamentale – mediante) pari a 2 toni. Nel temperamento equabile, si può anche dire, pari a 4 semitoni. Questo è l’elemento chiave che verrà analizzato molto più tardi, portando alla definizione delle scale maggiori e minori (per essere precisi, il primo passo sarà la definizione dei cosidetti “modi ecclesiastici” e successivamente, si arriverà alle tonalità maggiori e minori).

Armonia e tonalità

In modo semplicistico, potremmo dire che adottare una certa tonalità significhi usare solo le note della corrispondente scala diatonica. Ciò è vero, ma, nel contempo, è un’affermazione che non riesce a fornire una spiegazione veramente esauriente. Ad esempio, la scala diatonica di Sol ha soltanto il Fa# e tutte le altre note sono non alterate, quindi in comune con la scala di Do. Se un brano usasse solo le note non alterate, come si potrebbe capire qual è la tonalità?

Anche in questo caso, ovviamente, esiste uno strumento a disposizione dei compositori: la tonalità di un brano si dichiara indicando i diesis o bemolli in “chiave”, ovvero subito dopo la chiave (di violino, basso, tenore, etc.) e prima della dichiarazione del tempo. Non esistendo situazioni di ambiguità, questo piccolo escamotage risolve ogni dubbio.

Tuttavia, il vero modo per definire in modo forte una tonalità viene fornito dall’armonia. Infatti, possiamo dire con molta più certezza che una tonalità è stata affermata quando le progressioni armoniche “ruotano attorno” al centro gravitazionale data dall’accordo del I grado (i.e., accordo di tonica o fondamentale). Il brano può evolvere liberamente, ma ciò che si può notare è una forma periodica di “chiusura” o ricapitolazione tramite quelle che in gergo si chiamano “cadenze”, ovvero passaggi armonici (e.g., V – I) che creano una tensione e subito la risolvono muovendosi verso la tonica.

Accordi, terze e armonici di ordine superiore: gli ingredienti per costrutire le tonalità

Supponiamo di considerare l’accordo di Do (maggiore). Come tutti gli accordi a tre note (i.e., triadi), esso è composto da una terza maggiore a cui è sovrapposta una terza minore. Più precisamente: Do – Mi – Sol. Se ricordatate quanto detto in precedenza, l’intervello di terza ricopre un ruolo particolare, esso è infatti il “mattone” costitutivo dell’armonia classica. Per dare un quadro d’insieme più esauriente, esistono quattro possibilità di combinazione:

  • Accordi maggiori: Terza maggiore seguita da Terza minore (e.g., Do – Mi- Sol)
  • Accordi minori: Terza minore seguita da Terza maggiore (e.g., La – Do – Mi)
  • Accordi eccedenti: Terza maggiore seguita da Terza Maggiore (e.g., Do – Mi- Sol#)
  • Accordi diminuiti: Terza minore seguita da Terza minore (e.g., Si – Re – Fa)

Su una scala diatonica (maggiore) si avranno: accordi maggiori sul I, IV e V grado, minori sul II, III, e VI e diminuito sul VII. A questo punto, possiamo entrare nel nocciolo della questione mostrando come, mentre gli accordi maggiori (e quindi, le tonalità maggiori visto che il I grado è fondamentale) sono fisicamente confermati dall’evidenza, quelli minori nascono da una scelta deliberata, ovvero quella di usare una terza minore nella parte inferiore della triade (una condizione che scaturisce dalla nacessità di usare solo le 7 note della scala diatonica).

Per chirarire questo concetto, è importante fare riferimento ai cosidetti armonici di ordine superiore, sui quali ho scritto un articolo dedicato. In questa sede, non ripeterò quanto già spiegato nell’articolo, ma ricorderò soltanto che qualsiasi strumento che produce onde di pressione e che non sia un generatore d’onda elettronico, possiede un timbro, ovvero una caratteristica sonora che lo differenzia da altri mezzi. Tale timbro è il risultato dell’azione di note a frequenza più alta della fondamentale che vengono emesse dallo strumento. Ad esempio, nel caso di un Do, abbiamo:

Do(1) → Do(2), Sol(2), Do(3), Mi(3), Sol(3), Si♭(3), …

Con Do(1) ho indicato il suono fondamentale, con Do(2), quello all’ottava superiore, etc. Come si può vedere, i primi armonici consistono nell’ottava (la consonanza perfetta per antonomasia), la quinta maggiore (Sol, anche’essa consonanza perfetta), di nuovo il Do, la terza maggiore (consonanza imperfetta) e così via. La sequenza continua e si troveranno anche dissonanze, ma l’intensità degli armonici descresce andando avanti, per cui, l’effetto tende a svanire. Tuttavia, come si buon ben notare, i primi armonici, ovvero quelli più forti, contengono proprio le note della triade maggiore (ovvero, Do – Mi – Sol).

Questo fenomeno si verifica su qualsiasi strumento (che non emetta solo un suono sinusoidale generato elettronicamente) e con qualsiasi nota. Ecco perchè, quando suoniamo un Do maggiore, di fatto rafforziamo l’azione degli armonici superiori principali, creando un’armonia fortemente consonante. Al contrario, il Do minore è basato su una terza minore (Do – Mi♭ – Sol), per cui, suonandolo si avrà l’effetto di dissonanza tra il Mi(3) e il Mi♭. Tale effetto è assolutamente minimo e contribuisce a produrre un’atmosfera più malinconica e pacata, ma, da un punto di vista fisico, resta il problema che la triade minore (così come quelle eccedenti e diminuite) non ha fondamenti naturali, ma nasce da una scelta dell’uomo.

Conclusioni

Ovviamente, questo articolo non vuole stigmatizzare le tonalità minori, che permettono all’espressività musicale di raggiungere vette inarrivabili. Tuttavia, è importante capire i fondamenti dell’armonia insieme agli elementi fisico-matematici che hanno permesso lo straordinario progresso della musica occidentale (sino al superamente della tonalità stessa e alla nascita delle avanguardie).

Come promesso, il prossimo articolo musicale sarà dedicato al temperamento equabile, un concetto affascinante e problematico al tempo stesso, che però è divunuto subito uno standard de facto adottato da compositori e costruttori di strumenti musicali.

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