E’ quasi stupefacente pensare che uno scrittore come Edgar Allan Poe, romantico nell’animo e nell’intenzione letterararia, affascinanto dal gotico e dai torbidi incanti che tanto ammaliarono i poeti maledetti francesi, possa rivolgersi in modo così semplice e diretto proprio alla Vergine Maria. Eppure, la sua poesia più breve è proprio intitolata “Inno” e si tratta più di una preghiera, scevra da ogni forma di allegoria e retorica, semplice e diretta: un ringraziamento e un invito, elementi che, tuttavia, come avremo modo di discutere, divengono quasi utopici, trasmutandosi da spinte disperate a lucide constatazioni della realtà.
Il testo poetico
Per prima cosa, riporto la mia traduzione della poesia “Inno”:
Al mattino - a mezzodì - alla tramonto -
Maria, tu hai ascoltato il mio inno!
Nella gioia e nel dolore - nel bene e nel male -
Madre di Dio, continua a restarmi vicino!
Quando le ore scorrevano serene,
e nessuna nube oscurava il cielo,
la mia anima, per non cedere alla pigrizia,
guidò la tua grazia a te e ai tuoi cari;
Adesso, che le tempeste del Fato imperversano
e rabbuiano il mio Presente e il mio Passato,
fà che il mio Futuro possa irradiare la luce
di dolci speranze in te e nei tuoi cari.
Breve analisi del componimento attraverso lo sguardo di Edgar Allan Poe
L’uomo “Edgar Allan Poe” è ambivalente nel suo essere: talvolta romantico, sino quasi a richiamare lo Sturm und Drang, altre volte fragile come un bambino che cerca il conforto della madre. I più lo conoscono per i suoi racconti macabri, per l’invenzione del genere poliziesco, per la sua smania di scavare nel torbido, come un cercatore d’oro della California; ma egli fu molto di più e le sue opere poetiche lo dimostrano chiaramente.
In particolare, molte poesie, sulla scia anticipatrice di Baudelaire, vertono sulla passioni amorose, sull’esaltazione di un rapporto dialettico tra uomo che si nutre con tutti i sensi della creatura amata e, sul versante opposto, costei, statuaria, silenziosa, quasi onirica. E’ così per Lenore ne “Il Corvo”, per Annie, Annabel Lee, Eulalie, Irene in “Lei dorme”, Elena, tutti personaggi che appaiono per rimanere diafani, lontani, incosistenti.
E lo stesso, forse in misura maggiore, vale per la Vergine Maria, a cui Poe si rivolge con schietta sincerità. Nonostante una vita travagliata, piena di delusioni affogate nell’alcol, di insuccessi e di successi arrivati forse troppo tardi, il poeta continua a credere. Egli mantiene salda la sua fede, trasformando Maria in una delle sue donne amate, in un’immagine più da contemplare che da possedere.
La scelta lessicale
L’apertura del componimento poetico è quasi una dossologia, una lode a Maria che, secondo Poe, ha sempre accolto la sua invocazione. Ma perchè egli usa proprio la parola “Inno”? Non sarebbe stato più logico riferirsi a una preghiera? La risposta è celata proprio nello spirito romantico del poeta. Egli, nonostante tutto, preferisce innalzare un inno, una descrizione aulica che trasmuta ogni angolo buio in una goccia dorata. Poe non può, troppo facilmente, cedere alla supplica, poichè ciò implicherebbe un rapporto di sudditanza, ovvero una condizione estranea allo spirito indomito di chi gode della natura perchè la abbraccia con i suoi sensi.
Ecco forse perchè la scelta è così strana. Maria ha ascoltato il suo inno che, come un ritmo circadiano, si estende nel tempo e segue i moti degli astri come i battiti del cuore. Ma subito torna la tempesta: il poeta è tormentato, lo sappiamo, e i suoi scritti lo testimoniano. Egli forse scava nel profondo della psiche proprio per venire a capo del suo malessere esistenziale. E se la forza romantica è possente, allo stesso modo, la terribile azione del suo subconscio riesce a vincere anche i più indomiti atti di volontà.
La preghiera
Ecco quindi apparire timidamente quella richiesta che, forse solo nel suo cuore, Edgar Allan Poe vorrebbe rivolgere a tutte le sue donne “amate”: la vicinanza. Un prossimità illimitata, espressa più con una formula matrimoniale che con la semplicità della preghiera. Che Maria, già sposa, già madre, già circondata dai “suoi”, possa non lasciare solo quest’uomo in alcuna circostanza, nella gioia come nel dolore.
E’ con una timidezza tenera che il poeta muove un piccolo passo verso quest’immagine spendente. Egli, durante i suoi momenti felici – pochi, a dire il vero, quasi per non lasciarsi sopraffare da un senso di pigrizia, si lasciò sfiorare dalla grazia celeste e ne fu riconoscente. Forse non esultò come un fervente cristiano avrebbe dovuto fare, forse non esaltò ciò che egli non percipì immediatamente come un dono, ma la sua anima, nel fondo sempre angosciata, non voltò lo sguardo dal volto dolce di Maria.
Ma la linea temporale di Poe è ciclica, piena di curve tortuose e repentini cambiamenti di direzione. L'”Adesso” non ha una connotazione cronologica, poichè, come ogni parola scritta, esso può riverberare in ogni istante, ripetersi, spostarsi avanti e indietro. Il prima “felice” e il dopo “triste” sono due condizioni coesistenti, due realtà che concorrono a definire la condizione esistenziale del poeta.
Il tempo di Poe è statico, freddo come una statua e sempre volto verso di lui
Forse non a caso, egli sceglie usare l’iniziale maiuscola per denotare tre attori che recitano nello stesso dramma: Passato, Presente e Futuro. Forse non a caso, egli descrive un Fato (strano elemento se rapportato alla Provvidenza cristiana) atemporale che agisce con il tempo verbale presente sia nel momento attuale che in quello passato. E’ quasi come se Poe volesse tradirsi, come se, in un attimo di distrazione, la sua penna lo spingesse a scrivere ciò che egli non vorrebbe mai inserire in un inno. Ovvero, la sua persistente desolazione.
Una realtà che, financo quando Maria ha forse illuminato i suoi giorni, ha resistito e ha continuato a tormentarlo. In tal senso, l’inno, che vive nel non-luogo della volontà di lettura, diviene una proiezione, al pari dell’immagine iridescente di Maria, l’espressione di un desiderio inconscio ma palese nel suo opposto (i.e,. l’angoscia). E’ quindi il Futuro, luogo irragiungibile se non mosso verso di noi e fatto quindi presente, a divenire il momento della speranza, della supplica, dell’abbandono di ogni velleità romantica.
Così come il “Mai più” de “Il Corvo”, il Futuro rappresenta la commistione tra l’impossibilità e l’affermazione parossistica della permanenza inalterabile. “Mai più” vuol dire “Sarà sempre così” e, in modo analogo, in questo inno, Poe pone tutta la sua speranza su un numero assente dalla roulette. Scommette come un disperato, ma non cede alle lusinghe di una depressione palese. Egli, in altre parole, con il candore di un bambino (che, tuttavia, ha già vissuto molte vite), si abbandona a Maria e a suoi Cari, forse sapendo che, anche la Madre di Dio, accoglierà la sua preghiera solo in futuro, cioè mai.
Breve nota biografica di Edgar Allan Poe
Edgar Allan Poe era uno scrittore americano noto per il suo stile di scrittura macabro e gotico. Nato il 19 gennaio 1809 a Boston, Massachusetts, Poe sopportò una vita tumultuosa segnata da tragedie personali e lotte professionali. Le sue opere esploravano spesso temi della morte, della follia e del soprannaturale, affascinando i lettori con la loro atmosfera oscura e misteriosa.
Lo stile di scrittura di Poe era caratterizzato da immagini vivide, trame intricate e profondità psicologica. Alcune delle sue opere più famose includono “Il cuore rivelatore”, “Il corvo”, “Il Verme Conquistatore”, “La città nel mare”, “La lettera rubata” e “La caduta della casa degli Usher”, che hanno consolidato la sua eredità come maestro del racconto noir e poliziesco e della poesia.
Nel corso della sua vita, Poe dovette affrontare difficoltà finanziarie e perdite personali, inclusa la morte di sua moglie Virginia, che misero a dura prova il suo benessere mentale ed emotivo. Nonostante queste sfide, i contributi letterari di Poe hanno avuto un impatto duraturo sul genere dell’horror e della suspense, influenzando le generazioni di scrittori e artisti a venire.
Lo stile unico e i racconti inquietanti di Edgar Allan Poe continuano ad affascinare i lettori di tutto il mondo, consolidando la sua reputazione come una delle figure più iconiche della letteratura americana. Morì a Baltimora il 7 Ottobre 1849, a soli quarant’anni, dopo essere stato trovato in condizione di delirium tremens dovuto a uno sfrenato alcolismo.
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