La punteggiatura poetica: la musica e l’ermetismo di Ungaretti

“E’ il mio cuore
il paese più straziato.”

(G. Ungaretti)

Perché è così inimmaginabile una musica priva di indicazioni temporali (dichiarazione del tempo, durata delle note, pause, etc.)? Anche le avanguardie e le sperimentazioni più bizzarre hanno sempre (e giustamente, direi) fatto uso di tutte quelle informazioni necessarie per determinare il ritmo, la dinamica e, talvolta, anche il timbro delle singole note o di interi accordi.

In questo articolo, desidero discutere il concetto di punteggiatura sia in ambito musicale, che in quello poetico, facendo riferimento, in particolare, a Giuseppe Ungaretti, la cui poetica ermetica, con la scelta del verso libero, sembra voler rinunciare a ogni forma di “punteggiatura”, lasciando tale compito al flusso della semantica e delle emozioni suscitate.

Una foto di uno spartito musicale. Le informazioni di tempo, ritmo, melodia e armonia formano un tutt'uno inscindibile in musica
Un esempio di spartito musicale. Le informazioni di tempo, ritmo, melodia e armonia, etc. formano un tutt’uno inscindibile.

L’inesistente semantica musicale

In linea di principio (errato – con buona pace di Hanslick), il contenuto “semantico” della musica è espresso principalmente dall’altezza delle note e dalla loro successione, pertanto chiunque dotato di un sistema di decodifica dovrebbe poter accedere al significato di una produzione musicale semplicemente valutando la sequenza di frequenze che il compositore ha voluto rappresentare.

Prima di discutere le ovvie ragioni per cui tale assunto è banalmente inaccettabile, desidero fare una sorta di contro-esempio per supportare per attimo questa tesi. Se prendiamo, ad esempio, il Preludio della partita per violino/suite per liuto di Bach BWV 1006(a), notiamo subito che, a parte un paio di battute iniziali e un paio finali, l’intera composizione, in ritmo ternario di ¾, è basata su battute composte da tre gruppi di quattro semicrome.

In pratica, il ritmo “formale” (non quello interpretativo – che, pur trattandosi di una composizione barocca, possiede sempre una certa libertà) è “piatto”: l’interprete, alle prime letture, può procedere senza pensare poi tanto. Il metronomo batte un ritmo monotono e, ad ogni battito, corrisponde una nota. In questo caso, per forza di cose, le uniche vere informazioni (in senso stretto) sono fornite esclusivamente dalle altezze dei suoni (e da qualche rara indicazione dinamica). Qualcosa di simile, ma opposto, è l’esperimento del poema sinfonico per 100 metronomi di G. Ligeti (1923 – 2006).

La musica è inconcepibile al di fuori di un contesto sintattico ad hoc

Ovviamente questa tesi è del tutto fallace per diversi motivi. Il primo è ovvio: l’informazione completa deve, per forza di cose, tenere conto di tutti gli elementi riportati nello spartito. Tempo, ritmo, melodia, armonia, dinamica, timbrica e, naturalmente, ogni sorta di indicazione interpretativa (e.g., cantabile, con enfasi, sforzando, etc.) formano un tutt’uno inscindibile, che il solo a meritarsi l’appellativo di “composizione musicale”. La rimozione di uno o più di questi elementi non può che provocare un’alterazione inaccettabile che, spesso, rende perfino impossible l’esecuzione.

Il secondo motivo, più filosofico e speculativo, è che la musica (così come, la poesia e la narrativa) non esiste nel “puro spazio” (a meno di non considerare l’effetto vibrazionale staticizzato – una condizione attuabile in matematica, non di certo in natura) ma piuttosto in una dimensione che percettivamente viene definita “tempo” (o, per meglio dire, nella congiunzione di spazio e tempo). Nel saggio “Il dispiegarsi del tempo psicologico” scritto qualche anno fa, ho cercato di valutare un’ipotesi del perché l’uomo “senta” il fluire del tempo ma in questa sede preferisco far riferimento all’ipotesi filosofica teorizzata da P.D. Ouspensky (1878 – 1947) nel suo famoso libro “Tertium Organum”.

In tal senso, il tempo è l’effetto di una limitazione dell’apparato percettivo fenomenico dell’uomo che, limitato da uno spazio tridimensionale, è costretto a “diluire” la quarta dimensione in una sequenza di blocchi tridimensionali. Qualsiasi fenomeno, il cui noumeno trascende quindi la stasi di una percezione materialistica, deve necessariamente svilupparsi anche nel tempo e, in tale processo, espandere i propri confini in un luogo che gli sforzi ci fanno intravedere qualcosa, ma mai del tutto afferrarla.

Il tempo, espresso in forma grafica, strutturata, è pertanto “conditio sine qua non” non soltanto dell’interpretazione musicale (la cui semantica poggia le vere basi sull’articolazione delle sequenze frequenziali – tempo a tutti gli effetti), ma anche di tutte quelle forme di comunicazione ove l’obiettivo si estende al di là della mera trasmissione di informazioni funzionali alla sola sfera fenomenica.

Costruzione teorica di un ipercubo (o tesseratto se in 4D). Gli esseri umani hanno un apparto percettivo che non può “vedere” oltre la terza dimensione. Tuttavia, la matematica è in grado di trattare spazi multidimensionali (perfino con infinite dimensioni) senza alcun problema.

La poesia, così come la musica, spinge i suoi obiettivi verso la percezione consapevole dei noumeni nascosti in forme espressive apparentemente illogiche, destrutturate e talvolta anche di difficile comprensione. Elencare in successione le parole che compongono i versi di una lirica (così come, al limite, si potrebbe fare con la prosa) senza alcuna interruzione di riga o segno di interpunzione, equivale a tutti gli effetti all’appiattimento dimensionale del componimento, con l’ovvia conseguenza di “abbassare” il livello “bersaglio”, dall’umano che trascende verso l’infinito, a quello di creature limitate ad una conoscenza bidimensionale che, tutt’al più, può lasciar immaginare le forme solide così come gli umani pensano agli iperspazi (di quattro o più dimensioni).

La punteggiatura poetica quale veicolo semantico: Ungaretti docet

Questa doverosa premessa, per quanto lunga, è indispensabile per chiarire il ruolo metafisico che la punteggiatura ricopre nell’ambito poetico, con un’enfasi particolare sulla figura di Ungaretti: grammatica e sintassi, infatti, possono essere assimilabili al puro spazio che, attraverso l’elaborazione cromatica e strutturale, permette di saturare la fruizione delle prime tre dimensioni, mentre il ruolo dei segni di interpunzione diventa a tutti gli effetti l’unico e solo strumento in grado di codificare il tempo come vera e propria quarta dimensione.

Se in prosa, ad esempio, la separazione tra soggetto e predicato effettuata con una virgola è considerata un errore, in poesia essa non può che lasciare aperto un enorme spazio all’interpretazione della relazione che intercorre tra il soggetto e l’azione – fisica o immateriale – che viene compiuta. La pausa forzata diventa strumento di enfasi, un luogo immaginario ove il lettore può collocare l’espansione delle sue stesse emozioni, con-creando il significato che il poeta stesso ha “disperso” tra le maglie dei suoi versi.

Ritratto di Giuseppe Ungaretti
Ritratto di Giuseppe Ungaretti (1888 – 1970), il massimo esponente italiano dell’ermetismo poetico.

D’altronde, anche l’utilizzo di righe differenti è finalizzato a creare spesso un distacco tra due componenti la cui “liaison” non può che ricercarsi nella pura trascendenza verso una dimensione a noi fenomenicamente preclusa. Per comprendere a fondo questo aspetto della creazione poetica, è sufficiente leggere una delle più celebri ed ermetiche poesie di Ungaretti (1888 – 1970), “Mattina” (per un’antologia basata sull’opera omnia del poeta, consiglio il libro “Vita di un uomo“):

M'illumino
d'immenso.

Il primo verso è di per sé auto-sufficiente: il soggetto (che è e non è lo stesso Ungaretti) si dichiara implicitamente e afferma la sua tendenza ad espandere la sua percezione attraverso un processo di “illuminazione”; d’altronde, quest’ultima realtà implica un oggetto “standard”, la luce, la cui acquisizione è appunto definita “illuminazione”. Ma il poeta non desidera comunicare soltanto una sua percezione: egli desidera che il lettore inizi ad esperire l’effetto della luce su di sé e si prepari, quindi, a comprendere il simbolismo nascosto in questo concetto: l’immensità, l’infinità, la non delimitazione noumenica che solo la luce, con la sua effimera inafferrabilità, può rappresentare.

La separazione in versi, quindi, “espande” l’ambito d’azione, trasformando una frase molto gradevole ma inutilmente scevra di concretezza (“M’illumino d’immenso”) in un trampolino di lancio che apre le porte della percezione e lascia che l’ego si immedesimi pienamente con la luce, pervasiva e indistruttibile, prima di “esplodere” nell’immensità, proprio come l’”Ain” cabalistico (un concetto assimilabile al nulla) diventò “Ain Sof” (ovvero la fine del nulla), trasformando la potenzialità nell’inizio dell’intera creazione.

Considerazioni analoghe sono possibili per un altro capolavoro ermetico di Ungaretti, la poesia “Soldati”:

Si sta come
d'autunno
sugli alberi
le foglie

Anche in questo caso, l’unica informazione non linguistica è la suddivisione in versi. Tuttavia, in quella che sembra una banale suddivisione, si cela la natura più profonda e struggente della poesia di Ungaretti. Il contenuto semantico potrebbe rimanere inalterato se i versi fossero semplicemente concatenati in una frase, ma il poeta non desidera scrivere un aforisma. L’incipit “Si sta come” implica con forza una condizione esistenziali di stasi forzata. L’impersonalità, unita all’uso della preposizione “come”, crea determina un chiaro contesto semantico, un’apertura netta su uno scenario dove gli uomini, come burattini forzati in posizioni innaturali, “stanno”, senza neppure tentare di ribellarsi (atto che risulterebbe di certo vano).

Gli altri versi mostrano la stessa pregnanza e, addirittura, riescono, con una scelta “ritmica” azzeccatissima, a porre tutta l’enfasi ora su un aspetto e, subito dopo, su altro, creando un’interconnesione dove i singoli elementi non cedono nulla al contesto, ma contribuiscono alla sua struttuazione senza snaturarsi in alcun modo. Il secondo verso (“d’autunno”) è simile ad un accordo isolato che libra nell’aria e rimane sospeso, proprio come un paesaggio autunnale ritratto da un pittore impressionista.

Ungaretti pesa ogni parola, ogni frammento infinitesimale capace di trasportare un significato. In questo caso, “d’autunno” non è una semplice dichiarazione temporale; al contrario, il poeta desidera fortemente sottolineare che al pari dell’essere del primo verso, esiste anche una modalità che appesantisce la condizione di passività. L’autunno è una stagione terminale, ma capace ancora di far riflettere, voltare le spalle e vedere l’estate, con i suoi schiamazzi gioiosi. Esso è intrinsecamente crudele, perchè condanna sì alla stasi, ma, nel contempo, alla piena consapevolezza di essa e Ungaretti lo sa bene.

Gli ultimi due versi coronano lo sforzo descrittivo dei primi due. Musicalmente parlando, essi sono come una cadenza: dopo la tensione, essi hanno il compito di rirportare l’armonia a uno stato fondamentale. Ciò che è precariamente statico è proprio la foglia, “partorita” dall’albero-madre, che, dopo un’intera esistenza trascorsa aggrappandosi al genitore con un “cordone ombelicale” mai reciso, scopre la cruda verità. L’autunno porterà lo svezzamento, la separazione, la morte. Costretta all’immobilità, proprio come i burattini nascosti nelle trincee, mossa solo dai capricci del vento, la foglia lentamente avvizzisce, cede il suo verde alle screziature dorate e sente sempre più il flagello dell’aria.

Senza alcuna “punteggiatura”, Ungaretti riesce a marcare i confini, a creare una tessitura sia sintattica che semantica. Egli oltrepassa il confine della pura formalità per giungere in un luogo ove le regole accademiche decadono per cedere il posto alla pura percezione che non si lascia addomesticare. In quell’etereo spazio che, nel contempo, è così grave e materiale, egli disegna con singoli frammenti linguistici interi paesaggi dell’anima e supera le barriere del descrittivismo massimalisma con un’eleganza senza pari. Egli riesce a creare la vera punteggiatura poetica proprio attraverso la sua assenza, poichè, come ci insegnano i grandi interpreti musicali, non è il valore di una nota a determinarne la genesi e la morte, ma la profondità della sua essenza, della sua unicità e del suo apparire in un certo spazio e in un certo tempo.

La guerra nella poesia di Ungaretti

La poesia di Ungaretti costituisce una toccante testimonianza dell’impatto travolgente della guerra sulla psiche umana. Come soldato, ha vissuto in prima persona gli orrori e la brutalità delle trincee durante la prima guerra mondiale. Tuttavia, le sue composizioni poetiche vanno oltre la semplice descrizione del campo di battaglia; approfondiscono le sue emozioni e la sua condizione esistenziale di soldato.

Nella sua poesia, Ungaretti traspone magistralmente il caos e l’angoscia della guerra in immagini vivide e metafore profonde. Attraverso versi concisi e frammentati, cattura la natura fugace e frammentata della vita in prima linea. Le sue parole evocano un senso di immediatezza e urgenza, fornendo uno sguardo sulle emozioni crude vissute dai soldati.

Truppa dell'esercito italiano in una trincea durante la prima guerra mondiale. La poesia di Ungaretti è stata compagna anche in quei terribili momenti.
Truppa dell’esercito italiano in una trincea durante la prima guerra mondiale.

La capacità di Ungaretti di esprimere la fragilità della vita nello spietato contesto della guerra è davvero notevole. Esplora i temi della perdita, del dolore e della disperazione, riflettendo la sofferenza collettiva di coloro che si trovano nel fuoco incrociato. Le sue poesie diventano una liberazione catartica, un modo per elaborare le proprie esperienze dando voce agli innumerevoli soldati che hanno sopportato difficoltà simili.

È attraverso lo stile poetico unico di Ungaretti che riesce a trasmettere efficacemente la condizione umana nel contesto della guerra. I suoi versi creano un ponte tra il personale e l’universale, trascendendo le barriere linguistiche e trovando risonanza tra lettori di ogni ceto sociale. La poesia di Ungaretti funge da potente promemoria dell’impatto duraturo che la guerra lascia sugli individui e sulla società nel suo insieme.


Considerazioni sui concetti di Ain e Ain Soft nella Kabbalah

Il concetto di “Ain” è cabalistico e ha grandi implicazioni filosofiche all’interno della Kabbalah ebraica. “Ain” si riferisce allo stato del nulla o del non essere, che rappresenta l’assoluta trascendenza divina. Denota la fase iniziale della creazione in cui l’esistenza di Dio è nascosta e incomprensibile alla comprensione umana.

Andando oltre “Ain”, la Kabbalah introduce il concetto di “Ain Sof”, che significa “senza fine” o “infinito”. Questo termine indica la natura infinita di Dio, che comprende tutta l’esistenza e trascende ogni limitazione. “Ain Sof” rappresenta l’essenza divina e funge da fonte ultima di tutta la creazione.

Le implicazioni filosofiche di questi concetti sono profonde. “Ain” sottolinea la natura trascendentale di Dio, sfidando l’intelletto umano a cogliere l’essenza incomprensibile del divino. Incoraggia i ricercatori della Kabbalah a trascendere i limiti del mondo fisico e ad approfondire le profondità della spiritualità.

Frammento di un testo cabalistico
Frammento di un testo cabalistico del XVI secolo

Il concetto di “Ain Sof” rivela la natura infinita di Dio, suggerendo che ogni aspetto della creazione è un’espressione del divino. Ispira gli individui a riconoscere l’interconnessione di tutte le cose e la scintilla divina all’interno di ogni essere. Da questa prospettiva, la Kabbalah incoraggia il perseguimento della crescita spirituale e la realizzazione della propria divinità interiore.

Esplorando i concetti di “Ain” e “Ain Sof” all’interno della Kabbalah ebraica, gli individui acquisiscono intuizioni sulla natura di Dio, sull’universo e sul proprio viaggio spirituale. Apre le porte a esperienze mistiche, profonda saggezza e una comprensione più profonda dell’interconnessione di tutta l’esistenza. Attraverso lo studio e la contemplazione, si possono scoprire le verità nascoste e le implicazioni filosofiche racchiuse in questi concetti cabalistici. Per ulteriori informazioni e dettagli filosofico-teologici sulla Kabbalah ebraica, consigli il libro “La Cabala” di G. Scholem.



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